Giornata Internazionale della Donna.
"Ricordati di ritirare la bicicletta": pedalate femminili a ruota libera, alla conquista dell'emancipazione, dell'autodeterminazione e della libertà.
Il mio papà aveva intrapreso il suo lungo viaggio per il cielo ormai da qualche mese, quando una notte lo sognai mentre lui, puntando lo sguardo verso la cima di una collina, mi diceva: "Devo andare, ma tu ricordati di ritirare la bicicletta". La mattina successiva, ripensandolo come un amante delle passeggiate in bicicletta per le strade del paese, mi dissi che probabilmente avrei dovuto rispolverare la mia mountain bike riposta in garage prima della mia partenza per l'università.
Ho cominciato così anche io a passeggiare con la mia amica di gioventù, godendo della lentezza del mio pedalare, immersa nella tranquillità e travolta dalla bellezza dei paesaggi di un sorridente ma sonnecchiante posticino lucano.
Dopo qualche settimana, però, ho avvertito la sensazione che quel "ricordati di ritirare la bicicletta" significasse tanto altro. Dovevo scoprire cosa si celava dietro quella esortazione: le parole di mio padre hanno sempre significato tanto, troppo per me !!!
Da quel giorno dunque, ho iniziato a ricercare, approfondire, osservare oltre le apparenze ... e ho scoperto una "visione del mondo on the road, dal movimento centrale".
Immaginato e realizzato nel 1817 da Karl Drais, il primo modello di biciclo era molto lontano dall'idea che abbiamo oggi di bicicletta: seppur dotato di uno sterzo, non aveva pedali né freni e il guidatore doveva appoggiare i piedi a terra per dare propulsione e per frenare. Solo nel 1869, un biciclo simile al nostro iniziava a muovere i primi passi nella storia. Portava la firma del francese Eugène Meyer, ma fu concretamente sviluppato in Inghilterra da James Starley: il modello prendeva il nome di Penny-Farthing, perché il rapporto tra le due ruote richiamava le dimensioni delle due monete inglesi diffuse all'epoca. Inutile dire che in tale fase iniziale le donne erano ancora tagliate fuori dalla corsa, perché i vestiti diffusi all'epoca impedivano loro di posizionarsi sul sellino e azionare i pedali direttamente collegati alla ruota anteriore.
Le cose iniziavano a cambiare nel 1885, quando un nipote di Starley realizzava la Rover Safety Bicycle, ossia la prima bicicletta rispondente all'immagine attuale con le due ruote di ugual diametro ed un sistema di trasmissione diretto dai pedali alla ruota posteriore. Questo nuovo modello era molto più sicuro e quindi facilmente fruibile, per cui anche le donne, lungimiranti per antonomasia, cominciavano ad essere attratte dal nuovo mezzo. Ma gli uomini dell'epoca guardavano con sospetto all'entusiasmo femminile e così per allontanarle dall'oggetto del desiderio adottavano una serie di armi infime come disprezzo, derisione, insulti e vere e proprie punizioni come frustate, sassate o morsi alle caviglie da parte dei cani (come accaduto all'inglese Emma Eades) ed addirittura indicazioni mediche secondo cui il pedalare causasse nella donna depressione, palpitazioni e provocasse malattie alle ovaie, dismenorrea, amenorrea e parti difficili.
Ma tutto risultava vano: incuranti di ogni critica e di ogni pericolo, le donne sfrecciavano sempre più felici e spavalde lungo le vie delle proprie città.
Proprio nel 1894 un singolare episodio cambiava per sempre la storia che lega la bicicletta all'emancipazione femminile. Alcuni uomini di affare di Boston lanciavano una scommessa, mettendo in palio 10 mila dollari per la donna che fosse riuscita a fare il giro del mondo in bicicletta. La cifra da capogiro per quei tempi era semplicemente un modo per dimostrare che le donne "non erano fatte per pedalare". Anna Londonderry Kopchovsky, sposata e madre di tre figli, entrava a questo punto nella storia e diventava il simbolo della libertà femminile perché, sfidando ogni pregiudizio, all'età di 23 anni abbandonava tutto e partiva da Boston in bicicletta e arrivando in Cina, passava per Parigi, Gerusalemme e Singapore, sopportando incredibili difficoltà calunnie e persino la prigionia.
Al suo ritorno in patria e dalla sua famiglia, l'accoglienza si palesava trionfale e la sua sfida rinvigoriva il l movimento femminista che da quel momento adottava lo slogan "Le donne vanno a votare in bicicletta".
Nel 1896 l'Associazione tedesca delle Pedalatrici, scriveva:
"andare in bicicletta influenzerà il modo di vestire delle donne molto più di tutte le motivazioni di parità di diritti che sono state avanzate fino ad oggi"
Un anno dopo, infatti, più di cento ragazze si presentavano ad un congresso a Oxford indossando i famosi pantaloni alla zuava (dopo gli altrettanto famosi bloomer dei primi periodi del biciclo) facendo capire a tutti che in futuro non si sarebbero limitate a utilizzarli solo per andare in bicicletta. Le critiche si sovrapponevano ... ma la corsa della donna verso l'autonomia era ormai in piena attuazione.
Nel frattempo anche le donne italiane si lasciavano coinvolgere da questa novità: la dimostrazione storica la troviamo nella sfilata delle tantissime ragazze in bicicletta, in occasione della riunione ciclistica organizzata a Ferrare nel 1902 dal Touring Club Italiano, oppure nelle imprese di alcune cicliste come Alfonsina Strada (unica donna che partecipò al Giro d'Italia nell'edizione del 1924) e Adelina Vigo (concorrente di tutto rispetto nelle corse riservate al sesso forte).
Successivamente poi, la bicicletta si impossessava della scena storica divenendo il simbolo della Resistenza e l'impegno delle partigiane "a ruota libera" apriva la breccia a due grandi conquiste femminili del Dopoguerra: le donne, abbandonata la sottana e indossati i pantaloni, prendevano tranquillamente le biciclette dei padri, dei fratelli e dei mariti e spiccavano i primi voli verso l'autonomia professionale ed economica, verso un ruolo politico attivo ed un ruolo pubblico tutto da scrivere.
Per più di qualcuno ovviamente, i pantaloni e la bicicletta erano ancora una combinazione pericolosa da sopprimere in qualche modo (ma questo accade ancora oggi ... il seme dell'ignoranza è troppo duro per marcire e produrre la piantina del rispetto !!!).
Certamente la conquista ai diritti della donna è stata ed è ancora lenta e faticosa.
Se lanciamo uno sguardo sul mondo possiamo infatti scoprire e constatare che:
successivamente alla pubblicazione del film della regista araba Haifaa Al-Mansour "La bicicletta verde", alle donne è stato concesso il diritto di usare la bicicletta e l'autorità religiosa dell'Arabia Saudita ha annunciato che le donne possono andare in bici sulle strade pubbliche, in zone limitate come parchi e zone ricreative solo se indossano il tradizionale abaya e rigorosamente accompagnate da un parente. Non è tanto, ma è già una conquista storica ed un grande passo su cui si deve ancora lavorare.
In Iran invece, la donna in bici è ancora vista come "minaccia per la morale". Seppure non ci sia una legge che ne vieti l'utilizzo, di fatto le donne avvengono punite per questa ragione. In alcune aree del paese, si stanno diffondendo movimenti ambientalisti a favore della mobilità sostenibile e nonostante si invogli ad usare la bicicletta, le autorità arrestano le donne che pedalano, rilasciandole solo dopo la promessa di rispettare la "norma" sull'uso della bici. La situazione è diversa nelle città più grandi, dove le forze dell'ordine hanno un atteggiamento più permissivo ed è quasi normale vedere donne spostarsi in bici da sole.
Situazione diversa è quella che riportano gli esponenti del World Bicycle Relief che, nelle aree rurali di alcuni stati africani, Sri Lanka e Filippine. si attivano per diffondere l'uso della bici fra le popolazioni più povere e isolate, nell'ottica di migliorare le condizioni di vita, e permettendo alle persone di raggiungere i villaggi, i pozzi, i mercati ed altri servizi. I medici e le ostetriche possono spostarsi più velocemente tra i villaggi e gli ospedali e le bambine non devono più lasciare la scuola, perché non si troverebbero più nella condizione di camminare sole per chilometri nella savana, con tutti i rischi annessi.
Altro caso è quello del Francy Women Bike Ride, organizzato a Smirne in Turchia. Durante la manifestazione le donne si muovono su biciclette colorate per le vie del centro chiuse al traffico: è il segnale per far comprendere che possono riprendersi le strade e possono viverle in sicurezza, possono accedere agli spazi urbani, possono promuovere la mobilità attiva e praticare uno stile di vita sano e sostenibile, meno inquinato, più verde e con più spazi pubblici.
Di questa iniziativa ne sarebbe lieta l'astrofisica Margherita Hack , ciclista per passione che in una sua pubblicazione scrive a tal proposito fornendo anche una chiave di lettura ecologista: "Da ciclista verde ho sempre sentito come molto importante il problema dell'ambiente, che è strettamente legato alla legalità. Come dovrebbe essere una città moderna rispettosa dell'ecosistema e dei suoi cittadini ? Una propaganda per una maggiore diffusione della bicicletta come normale mezzo di trasporto e non solo come svago, potrebbe dare un grande contributo alla soluzione di un problema che mette a rischio la nostra salute e addirittura la nostra vita sulla terra".
Menzioniamo a tal proposito, le esperienze tutte italiane introdotte dagli assessorati al Welfare con declinazione femminile. Nella città di Bari è partito un progetto per il servizio cittadino di assistenza domiciliare per anziani e disabili, che vede gli operatori socio-assistenziali lavoratori spostarsi in bicicletta per garantire il servizio Sad e Adi. Obiettivo della iniziativa è sperimentare una forma innovativa di mobilità sostenibile e un welfare riconoscibile e prossimo ai cittadini. A Bergamo, il progetto europeo Inclusiv_eBike consiste nel testare una bici a quattro ruote con pedalata assistita, per trasportare disabili e persone con difficoltà motorie. A Bologna invece, il progetto internazionale "In bici senza età" si propone di includere i nonni e i malati di Alzheimer e riportarli in giro per la città e per i colli, usando le cargo bike come terapia naturale ed economica..
La storia della bicicletta e dell'emancipazione femminile, dunque, non è ancora finita: anzi potremmo dire a quasi 150 anni dalla sua nascita, che è appena cominciata.
La bici interessa alle donne perché è un mezzo poco controllabile ed economico e perché, come scrive Augè "è mitica, epica ed utopica. Ci si può dedicare a lei solo stando ben attenti al presente, ed è al centro di racconti che richiamano le storie individuali e i miti collettivi".
La bicicletta offre un senso di liberazione ed è risparmio di tempo negli spostamenti e poi è troppo carina (specie se pensiamo alla Cinzia, alla Graziella e agli ultimi tandem e mountain bike).
Da strumento di sovversione è diventata simbolo di libertà, di emancipazione ed inoltre a lei possiamo attribuire un ruolo politico in quanto ci ha permesso di capire che un ruolo pubblico si conquista invadendo, percorrendo e raccontando uno spazio.
Inoltre possiamo affidare alla bicicletta un messaggio attualissimo pieno di speranza: se la usassimo a metafora del rapporto uomo/donna, potremmo capire che se una catena lega due ruote/entità (e questa catena si chiama amore non violenza!!!), l'ingranaggio può permettere solo il movimento in avanti e la libertà propositiva per entrambi i partner.
E così se la bici ci permette di guardare oltre ogni esasperazione e di recuperare valori ed ideali un po' dimenticati, la bici diventa simbolo di rivoluzione perché porta con se una "immagine senza ostacoli della libera femminilità" (cit. S. Anthony) e, come dico io, una
"visione del mondo on the road, dal movimento centrale".
Voglio allora concludere pensando che il mio papà abbia voluto trasmettermi ancora una volta (seppur da lassù) una grande lezione di "principio" e mi piace pensare che dicendomi "Ricordati di ritirare la bicicletta", abbia voluto riassumere il più elaborato concetto di Emile Zola che nell'opera "Il ventre di Parigi" fa dire alla sua eroina Marie: "Se un giorno avrò una figlia, la metterò in sella ad una bicicletta già a 10 anni, perché impari subito come deve comportarsi nella vita".
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